UNA PSICOANALISTA A TEHERAN di Gohar Homayounpour

L’Iran, una volta Persia nome decisamente più suggestivo ed evocativo, accende facilmente le fantasie di noi occidentali. E’ il fascino, neanche tanto discreto, dell’Oriente con  le  sue  leggende  e  i  suoi  miti  millenari. Con il rischio che ci arrivino immagini spesso irreali o comunque distorte. In proposito ci ammonisce la psicoanalista freudiana Gohar Homayounpour, autrice di “Una psicoanalista a Teheran” (Cortina Editore, pag. 142, euro 16), con la prefazione del notissimo regista iraniano Abbas Kiarostami e una postfazione della psicoanalista italiana Lorena Preta. Si tratta di una seconda edizione italiana, a distanza di 12 anni dalla prima.

Nata a Parigi da genitori iraniani, ha vissuto in Canada e negli Stati Uniti, e dopo un breve ritorno a Teheran, vi si è trasferita successivamente da alcuni anni. La questione fondante per la Homayounopur, 48 anni,  è se sia possibile praticare la psicoanalisi in Iran: la risposta è sì, senza nessuna incertezza. La cultura iraniana – ci ricorda l’autrice – è fittamente intessuta di narrazione, di storie: <Qui alla gente piace molto parlare,, cosicché il seme della talking cure ha trovato un accoglimento abbastanza buono nel grembo del carattere nazionale iraniano>.

Il libro ruota quasi interamente intorno all’analisi che la giovane autrice, tornata in vacanza a Teheran, intraprende con una paziente non comune: pittrice famosa, vissuta a lungo a Parigi, assidua lettrice di Lacan e Freud. Una paziente non “facile” (ammesso che vi siano pazienti “facili”), che la mette in discussione costringendola a un riesame della propria storia personale. Scopriamo così che il suo vissuto adolescenziale passa per Milan Kundera e il suo “L’insostenibile leggerezza dell’essere” , letto e riletto alla tenera età di undici anni. E Kundera torna nei suoi sogni favorendo da parte della Homayounpour una serie di riflessioni psicoanalitiche su e sé stessa oltre che sui personaggi  del romanzo. Per farci scoprire che il traduttore in lingua farsi è stato nientemeno che il padre.

Passeranno anni però prima che l’autrice, stimolata anche da una conversazione con il suo supervisore analitico, decida di fare ritorno a Teheran. E qui si apre una finestra estremamente interessante sull’inconscio collettivo iraniano. Stralci delle sedute della Homayounpour con i suoi pazienti, fanno emergere sempre e comunque il tema della sessualità cogliendo quasi di sorpresa l’autrice: <Qui oggi la sessualità è ancora la stessa di Freud. A Teheran ho incontrato pazienti di un genere molto affine a quello dei pazienti che Freud vedeva ai suoi giorni e che mi riportano all’epoca in cui la psicoanalisi era ancora agli esordi>.

Disordini narcisistici e borderline, bipolarità e stati psicotici, aggressività: per la Homayounpour è forse un po’ “colpa” anche degli psicoanalisti se sono questi i temi più “in voga” nelle sedute di psicoanalisi e non la sfera della sessualità, tanto da farle chiedere se <non saranno mutate le nostre (degli analisti) categorie diagnostiche>. Il libro alla fine risulta un po’ sbilanciato a favore della prima parte dedicata all’analisi con la paziente pittrice e ai personaggi del testo di Kundera: avrebbe invece meritato un approfondimento maggiore (come pare suggerire il titolo del libro) il vissuto dei pazienti iraniani che emerge dai frammenti di sedute che la Homayounpour ci propone nel finale del libro.

 

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